Seguire una regola

Non si può spiegare in modo esaustivo cosa significa “seguire una regola”. Tuttavia il linguaggio funziona proprio in questa insufficienza, sospeso tra le opposte impossibilità della determinazione assoluta e dell’assoluta indeterminazione.

Seguire una regola - Passami un mattone_BN [ anna lav ]

Un maestro elementare entra in classe, prende il gesso e scrive alla lavagna questa successione: «2, 4, 6, 8, 10». Si volta verso i suoi allievi, ne chiama uno e gli chiede di proseguirla. Il bambino va alla lavagna e scrive: «12, 14, 16, 18, 20», quindi il maestro lo ferma e lo rimanda al posto. Chiama un altro bambino, che scrive «22, 24, 26, 28, 30». Il terzo bambino scrive «34, 38, 42, 46», ma il maestro lo blocca prima che possa scrivere «50»; lo redarguisce, richiama la sua attenzione su ciò che hanno fatto lui stesso e i suoi due compagni. Verosimilmente il bambino riconosce di aver commesso un errore.

Se però vi fosse un filosofo a osservare la scena, magari proprio dal punto di vista del maestro, egli potrebbe non fermarsi all’identificazione e alla correzione di un errore. Rifiutandosi, come fanno spesso i filosofi, di dare alcunché per scontato, potrebbe invece intercedere in favore del discepolo e – cosa che il discepolo stesso, significativamente, non farebbe – potrebbe chiedere: «Cosa, del resto, nella successione che era stata scritta inizialmente alla lavagna, proibiva di ritenere che il modo corretto di proseguirla fosse, sì, quello di aggiungere di volta in volta 2 al numero precedente, ma solo fino a 30, e che da lì in poi invece si dovesse andare avanti di 4 in 4?»

La domanda sarebbe oziosa solo se vi fosse una risposta ovvia. Ma una risposta ovvia non c’è, e quello che è appena stato delineato è un problema filosofico maiuscolo, la discussione del quale ha tenuto occupato, se non proprio “assillato”, Ludwig Wittgenstein per gran parte della seconda metà della sua vita.

L’esempio con cui siamo partiti mostra con grande chiarezza una proprietà che appartiene, spesso in modo meno evidente, a tutte le regole: quella di essere sottodeterminate rispetto a ciò che ne è regolato. Il fatto di stabilire una regola qualsiasi – «quando dico “mattone”, passami un oggetto come questo» – non garantisce mai che essa possa essere seguita in un solo dato modo. La regola è sempre suscettibile di essere fraintesa, non dice mai abbastanza per non lasciare alcun dubbio su alcuna sua istanza: in questo senso è necessariamente sottodeterminata rispetto alle sue applicazioni.

Il mio collega muratore può passarmi un mattone quando dico “mattone” dieci, venti, cinquanta volte; se l’ennesima volta anziché passarmi un mattone mi passerà un’asse di legno o una lastra di metallo, io sarò certo interdetto; ma se lui è un filosofo tanto quanto è un muratore (poiché è tipico proprio dei filosofi il non fermarsi agli usi irriflessi del linguaggio) e quindi mi risponde «non c’era niente nel nostro accordo che impedisse questo esito», io non posso ribattere niente. Avevo forse creduto di stabilire univocamente tutti gli esiti dell’applicazione della regola con l’associare, ad esempio ostensivamente, quella parola a quell’oggetto, ma il dire «un oggetto come questo» non è certo una determinazione sufficiente a escludere ogni fraintendimento. Non avevo fornito una regola che spiegasse in modo esaustivo come applicare quella regola. E ovviamente se l’avessi fatto mi sarei messo nella condizione di dover dare una regola per l’applicazione di quell’altra regola, aprendo un regresso all’infinito, e avrei così provato proprio ciò a cui Wittgenstein voleva farci arrivare: data una qualsiasi regola, proprio in quanto è una regola, è impossibile che con essa siano già determinate tutte le sue applicazioni.

Se, del resto, nella regola che abbiamo usato come esempio e che ha a che fare con i mattoni fossero contenuti, in qualche modo magico, tutti i mattoni, tutti e soli gli oggetti a cui essa nelle mie intenzioni deve applicarsi (solo così il mio collega potrebbe essere sempre certissimo di quali oggetti deve o non deve passarmi), allora essa perderebbe per ciò stesso il suo carattere di regola; smetterebbe di essere una semplificazione del complesso (che, dimenticando qualcosa, ci permette di ricordare qualcosa); cesserebbe di essere l’uniforme unità di una certa molteplicità e si appiattirebbe su quella stessa molteplicità informe e troppo ricca di dettagli. Si potrebbe dire, con un po’ di platonismo, che la regola è tale proprio solo in quanto, accettando di non tener conto di tutto, ci salva dagli eccessi indominabili dell’eraclitismo.

Ed è proprio per questo che il discorso di Wittgenstein è interessante. A un primo sguardo, data una regola, l’impossibilità di decidere in modo esaustivo delle sue applicazioni sembra porre un gravissimo limite all’intelligibilità del linguaggio; a veder meglio, al contrario, tale impossibilità si rivela addirittura una condizione di possibilità della comunicazione linguistica, tolta la quale la regola non conterrebbe niente di meno, e quindi anche niente di più, rispetto a ciò che deve regolare.

Se ci viene chiesto: «Perché chiami questo “mattone”?», dobbiamo e possiamo solo rispondere «perché esso si chiama così, perché tali sono le regole grammaticali del nostro gioco linguistico». E se ci viene chiesto: «Cos’è una regola, e come funziona?», noi possiamo solo rispondere: «Appunto, così». Ma se chi ci interroga intende dimostrare che il nostro uso delle regole, in quanto infondato, è illegittimo, allora noi nel rispondergli abbiamo un grande vantaggio, poiché colui che ci rivolge tali questioni, per poterlo fare, sta ovviamente facendo un uso regolare dei termini che impiega (solo così può comunicare con noi) e dunque non ha affatto bisogno delle spiegazioni che ci chiede. Similmente non ci troveremo mai nella necessità di incitare qualcuno dicendo: «Segui la regola!», perché tale comando potrebbe essere seguito solo da chi già, ben prima di riceverlo, sapesse e volesse farlo.

«In che modo posso seguire una regola?» – se questa non è una domanda riguardante le cause, è una richiesta di giustificare il fatto che, seguendo una regola, agisco così[1].

Ma chiedere una giustificazione del genere, ancora una volta, è un’assurdità. O almeno: se la domanda chiede una risposta che verta sulle cause delle nostre azioni, potremo certamente fornire del nostro “seguire una regola” spiegazioni psicologiche (tendo a essere condiscendente rispetto a ciò che mi viene chiesto), fisiologiche (un circuito neurale produce in modo prevedibile la risposta allo stimolo), eccetera; ma tutte queste spiegazioni potranno essere formulate proprio solo seguendo le regole del linguaggio e presupponendo la possibilità di farlo, cosicché se chi fa la domanda pretende che gli si risponda giustificando tale possibilità senza presupporla, pretende qualcosa di semplicemente contraddittorio.

Non si può giustificare, nel senso di darle un fondamento autosufficiente e irriducibile, la possibilità del seguire una regola, perché ogni tentativo del genere dovrebbe respirare nell’atmosfera del linguaggio e dunque presupporre tale possibilità. Non si può mai escludere completamente l’equivoco, poiché nella regola non c’è abbastanza per poter determinare l’esito di ogni caso in cui viene seguita – e se ci fosse questo, ci sarebbe allora troppo, e alla regolarità già si sostituirebbe nuovamente la confusione. E tuttavia non c’è alcun bisogno di giustificare quella possibilità e di escludere questo equivoco: il fatto di dover presupporre la possibilità della regola ci autorizza a farlo, e dunque a utilizzare il linguaggio e a illuminarne gli usi solo dall’interno; il fatto di non poter giungere a una determinatezza totale ci permette di continuare a pensare, anziché essere, come il Funes di cui narrava Borges, frastornati e inebetiti dai dettagli[2].

Questo significa giocare quel gioco che, secondo Wittgenstein, è il linguaggio: utilizzare le parole seguendo le regole, qualificare le cose e delimitare i pensieri il meglio possibile, senza mai più la pretesa di arrivare a una determinazione perfetta (come se avere tante parole quanti oggetti significasse altro che il caos, la rinuncia al giudizio e la negazione del linguaggio).

Note

[1] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 2014, § 217.

[2] Cfr. J.L. Borges, Finzioni, tr. it. di F. Lucentini, Einaudi, Torino 2014, pp. 97-106.

di Michele Lavazza

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