di Ilaria Iannuzzi
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Quando ho visitato la colossale collezione del Museo Egizio di Torino, la sentenza dell’esagramma 9 sembrava darmi una raccomandazione quasi paradossale: guardare al piccolo. Così non mi sono concentrata troppo sui maestosi sarcofagi e gli esagerati corredi funebri, ma su un mosaico di piccoli oggetti che raccontano una storia sugli Egizi meno celebre e meno celebrata rispetto a quella del loro solenne culto per la morte. È la storia di ciò che per loro, anzi, era più misero: la vita.
Per ricostruire la breve e – forse poi non così tanto – banale avventura sulla terra degli antichi Egizi, partiamo dalla sala di Deir el-Medina. La sala è dedicata ai reperti provenienti dal sito omonimo (nei pressi dell’odierna Luxor), l’antico villaggio in cui vivevano gli operai e gli artigiani che costruirono la Valle dei Re, e rappresenta una eccezionale finestra da cui sbirciare i modi di vivere, le abitudini quotidiane e i costumi della gente comune ai tempi dei grandi faraoni. Colpisce qui la presenza di un piccolo ostrakon, un frammento di pietra calcarea risalente al Nuovo Regno su cui è elegantemente miniata una ballerina. Colta nel movimento della danza, con il corpo morbidamente arcuato all’indietro per svolgere una complessa capriola, mentre la lunga chioma sfiora con armonia la terra, è decisamente lontana dalle pose statiche e ieratiche delle raffigurazioni convenzionali. La trattazione aspira a una resa realistica che era infatti impensabile per l’arte ufficiale, che aveva il sacro compito di sottrarre gli oggetti alla fugacità del tempo e della vita per fissarli in forme simboliche eterne, immutabili e immobili come la morte. Ma la spontaneità e la naturalezza di questa danzatrice non si affannano a scongiurare l’effimero e il transeunte con le formule – oserei dire negazioniste e sclerotiche – di un culto per il sovrumano, al contrario sembrano venirci a patti, accoglierli, fino a sublimarli, nel modo più umano possibile: attraverso la creatività dell’arte.
Rimaniamo sempre nella stessa sala per scoprire tre papiri molto interessanti. Il primo è il Papiro Erotico, risalente al XII secolo a.C., che riporta dei disegni del tutto sorprendenti, che mandano in fumo lo stereotipo di una civiltà severa e composta, tutta tesa verso l’aldilà. Nella prima parte del papiro, infatti, ci troviamo davanti delle illustrazioni satiriche che vedono animali antropizzati come protagonisti, mentre nella seconda parte immagini che descrivono senza inibizioni scene erotiche fatte di acrobazie esagerate e un po’ improbabili.
Il contenuto del secondo papiro non è meno sorprendente: si tratta del Papiro dello Sciopero e descrive appunto gli scioperi che ebbero luogo a Deir el-Medina durante il regno di Ramesse III. Tanto per sfatare un altro abusato luogo comune sugli Egizi, quello degli schiavi (magari frustati a dovere!), questo testo ci rivela che gli operai che lavoravano alle piramidi ricevevano come legittimo salario delle razioni alimentari, e quando queste non arrivavano regolari, organizzavano sit-in nella necropoli reale e non c’era visir che potesse smuoverli da lì finché non ottenevano quel che spettava loro. Infine, il terzo papiro è quello per me più affascinante di tutto il Museo, più del famoso Canone Regio, più dell’enorme Libro dei Morti. Catalogato semplicemente con il numero 1966, si tratta di un papiro “double face”, in cui la parte anteriore (il recto) non ha niente a che vedere con quella posteriore (il verso). In sé non è qualcosa di molto insolito, poiché il materiale papiraceo era piuttosto costoso e non veniva certo sprecato: quando era necessario i fogli venivano riciclati per altri usi girandoli dall’altro lato. Quel che è singolare, invece, è l’ironico contrasto che il caso ha saputo creare tra i contenuti delle due facce. Sul recto leggiamo una lirica amorosa, i Canti del Boschetto, in cui gli alberi di un giardino evocano la storia di due amanti che si rifugiano all’ombra delle loro foglie. Il più devoto protettore dei loro incontri segreti è il Sicomoro, albero particolarmente importante per la cultura egizia, in quanto dal suo legno si ricavavano i sarcofagi; ma qui l’albero della morte si fa albero della vita. Sul verso, invece, troviamo il resoconto di un tribunale che stila un elenco furti compiuti in varie città con i nomi dei rispettivi autori. Poesia e prosaicità: ecco i due lati di una stessa medaglia, la vita umana.
Per completare il nostro percorso ci spostiamo nella sala successiva, che conserva gli amplissimi corredi rinvenuti nelle monumentali tombe di una coppia, il capo architetto di Deir el-Medina Kha e sua moglie Merit. Vi sono tanti oggetti della quotidianità e del mestiere: abiti e biancheria, gioielli e cosmetici e persino cibo fossilizzato, ma ciò che colpisce più di ogni altra cosa la mia curiosità è una piccola “scacchiera” per il gioco del senet, munita delle sue pedine. Incisi su uno dei lati compaiono i nomi di tutti i proprietari che si sono tramandati il gioco, ultimo dei quali è stato appunto Kha. Non si sa bene quali ne fossero le regole (consisteva forse in un antenato del backgammon?), ma quel che è certo è che anche questo reperto ci fa riscoprire gli Egizi come un popolo tutt’altro che mummificato: amavano godersi la vita e cercarne anche il lato giocoso!