Fra Terra e Mondo, uno sguardo vigile

di Luca Siniscalco

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Il ribaltamento degli elementi di “terra” e “acqua” nell’esagramma dell’Esercito, rivisto alla luce della tensione fra Terra e Mondo nel pensiero di Heidegger, come origine dell’opera d’arte. In essa, sembrano convivere la dinamica del pòlemos con l’idea di solidarietà.

Fra terra e acqua. Ma anche fra Terra e Mondo. Questa la prima immagine sorta nella mia mente al palesarsi della figura orientale emersa nell’introduzione della rivista. Perché un autore attento alla provocazione dell’Oriente quale Martin Heidegger ha colto nella dimensione relazionale di questi due termini una polarità essenziale per un’ontologia non più metafisica. Convergendo rispetto all’approccio stesso de La Tigre di Carta e sfruttando la “significatività” – in senso junghiano – di tali coincidenze, vorrei porre all’attenzione dei lettori alcuni spunti non definitivi e rizomatici [1] di un discorso che, giocando con alcuni termini, intende conferire ad essi un nuovo posizionamento.

Terra e Mondo, dicevamo. Osserviamo questi due poli nel loro rapporto dinamico, a partire dal caso rappresentativo dell’arte. Da un lato «l’opera in quanto opera espone un Mondo. L’opera mantiene aperta l’apertura del Mondo», che «non è un possibile oggetto che ci stia innanzi e che possa essere intuìto», bensì è «il costantemente inoggettivo a cui sottostiamo fin che le vie della nascita e della morte, della grazia e della maledizione ci mantengono estatizzati nell’essere» [2]. D’altra parte «ciò in cui l’opera si ritira e ciò che, in questo ritirarsi, essa lascia emergere, lo chiamiamo: la Terra. Essa è la emergente-custodente. […] Su di essa ed in essa l’uomo storico fonda il suo abitare nel mondo. Esponendo un mondo, l’opera pone qui la Terra. […] L’opera lascia che la Terra sia una Terra. […] Aperta e illimitata in se stessa, la Terra appare soltanto se è garantita e conservata come la essenzialmente indischiudibile, sottraentesi a ogni dischiudimento» [3]. Mondo e Terra sono in lotta fra loro per «l’autoaffermazione della propria essenza» [4]; diversi fra loro, in quanto il Mondo è apertura mentre la Terra chiusura in sé, non sono mai separati, si dispiegano piuttosto in un perenne polemos cosmico. Il Mondo è la costellazione luminosa dell’avvenire storico, la Terra è lo sfondo oscuro e impenetrabile in cui ogni fenomeno rifluisce. Il primo intende dominare la Terra per condurla alla piena apertura, la seconda aspira d’altra parte a conchiudere il Mondo nel proprio oscuro obliarsi.

É in questa concezione agonale, radicalmente eraclitea e nietzscheana, che Heidegger ripristina il significato ellenico di aletheia come disvelamento dell’Essere, superandone la concezione obliante che da Platone fino alla modernità la intendeva quale rettitudine nell’adeguamento del soggetto all’oggetto. Senza potere approfondire in questa sede la natura evenemenziale di questa verità coglibile nel non-esser-nascosto dell’ente, indirizziamo il nostro sguardo verso il ribaltamento continuo espresso in tale visione, ove la ricchezza dell’esperienza viene colta oltre ogni superficialità.

Terra, Mondo, Guerra. Ma anche Solidarietà, se i primi due poli si rovesciano incessantemente uno nell’altro, in formazione conflittuale ma al tempo stesso convergente, diversi nell’identico ed identici nel diverso. L’unità dei contrari su cui tante culture hanno riflettuto emerge in questi passi col fulgore della prosa heideggeriana, in una “inter-in-dipendenza”, per impiegare il lessico del brillante Raimon Panikkar, che connette e preserva, cura ed ammonisce. Giacché Terra e Mondo, benché differenti, non si danno che insieme, così come la Guerra è contesto umano in cui gesti di straordinaria Solidarietà vengono compiuti, e la Solidarietà è d’altro canto tale solo se in essa il criterio della distinzione ha vigore e non si scioglie in un buonismo indifferenziato.

La Terra, che si rivela in quanto sottrazione della sua stessa rivelazione, si dà così in un sottrarsi che è un vuoto pieno, come le parole del nostro breve scritto si incidono su una carta bianca che è velarsi di un non ancora – o non più – detto. Segni che incorporano, dissolvono e che ricordano il nostro errare, fisico e interiore, nel rincorrersi di eventi contrastanti, che nella dissonanza richiamano per converso l’unità.

Questa riflessione dai tratti evanescenti non condurrà a conclusione alcuna, perlomeno in questa sede, ma invita a cogliere con più attenzione tante aperture e squarci nella cappa di una quotidianità la cui chiusura proviene e si fissa spesso proprio a partire dal nostro stesso posizionamento. Dal nostro sguardo, primariamente. Per poter affermare un giorno, con Fernando Pessoa: “Il mio sguardo è nitido come un girasole/Ho l’abitudine di camminare per le strade/guardando a destra e a sinistra/e talvolta guardando dietro di me…/E ciò che vedo a ogni momento/è ciò che non avevo mai visto prima,/e so accorgermene molto bene./So avere lo stupore essenziale/che avrebbe un bambino se, nel nascere,/si accorgesse che è nato davvero…/Mi sento nascere a ogni momento/per l’eterna novità del Mondo…”.


Note:

  1. Dal termine botanico “rizoma”, che indica una modificazione sotterranea del fusto che consente alla pianta una Rigenerazione. L’espressione diventa la metafora filosofica della vita che agisce di nascosto rivelandosi soltanto in alcuni momenti pregnanti (cfr. Jung e Deleuze).
  2. Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, tr. it. di P. Chiodi, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 30.
  3. Ivi, pp. 31-32.
  4. Ivi, p. 34.

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Autore

  • Professore incaricato di Estetica (Università degli Studi di Milano-eCampus-UniTreEdu), collabora a varie realtà culturali e editoriali come autore, curatore ed editor. Nel tempo libero è sabotatore culturale. È nella redazione esterna de La Tigre di Carta.

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